Se guardate le foto, non pensate che sia sbagliata l’indicazione della sala: questa “Clemenza di Tito” mozartiana non è andata in scena all’Olimpico di Vicenza, bensì al Verdi di Trieste. Però il frontone scenico del gioiello del Palladio (con le quinte retrostanti dello Scamozzi, suo esimio allievo) è stato ricostruito ‘sic et simpliciter’ dal scenografo Pier Paolo Bisleri sul palcoscenico del maggior teatro triestino, ponendolo come singolare sfondo in questo nuovissimo allestimento di uno dei meno frequentati melodrammi mozartiani. E quella di portare per la prima volta a Trieste “La clemenza di Tito” mi appare una scelta coraggiosa, poiché da sempre un “Don Giovanni” o “Le nozze di Figaro” riempiono assai di più una sala che quest’opera misconosciuta al grande pubblico, sebbene ideata nello stesso fertile periodo che vide nascere “Il flauto magico”, il Concerto per clarinetto, il Requiem.
Si sa come andarono allora le cose: per i festeggiamenti susseguenti all’incoronazione di Leopoldo II, tenutasi a Praga nel luglio del 1791, ai primi di settembre serviva un’opera adeguata, naturalmente del tutto nuova; e rigorosamente formale e magniloquente, nonché fastosa nell’impianto onde omaggiare degnamente l’augusto sovrano sotto le volte del Teatro Nazionale. La scelta cadde sul vecchio, ma sempre valido testo del Metastasio che esaltava le virtù dell’imperatore Tito Vespasiano, sia come uomo sia come politico; testo scritto nel 1734 proprio per la Corte viennese e per Carlo VI, padre di Maria Teresa. Ricevuto il rifiuto di Salieri, le autorità praghesi si rivolsero all’ultimo a Mozart, e l’incombere delle date costrinse il musicista a mettersi immediatamente al lavoro e stenderne la partitura già durante il viaggio per la capitale boema, assistito in questo come sempre dal fedele Süssmayr. Gli era di supporto il libretto rielaborato per l’occasione da Caterino Mazzolà, il quale aveva snellito l’azione, mantenendo molte parti del Metastasio ma aggiungendone altre di nuove, quali l’intenso quintetto con coro che chiude il primo atto, o certi lunghi recitativi accompagnati consegnati ai principali protagonisti. Modifiche indispensabili, che assecondavano i nuovi gusti musicali nati sulla spinta della riforma gluckiana.
Considerato che sino ai primi decenni dell’Ottocento “La clemenza di Tito” ebbe discreta diffusione nei teatri, ispirando non pochi musicisti - se ne intravedono tracce anche nel “Fidelio” beethoveniano – appare strano come poi sia caduta in disgrazia ed a lungo considerata negativamente dalla musicografia mozartiana, almeno sino alle recentissime rivalutazioni critiche. Per averne un’idea, basta confrontare le sbrigative righe con le quali Edward J. Dent se la cava nel suo “Mozart’s Opera” del 1947, rispetto all’approfondita analisi svolta da Stefan Kunze ne “Il teatro di Mozart” edito in Italia nel 1991.
Resta comunque che, per la semplicità e l’ineliminabile staticità dell’impianto drammaturgico, e per la linearità dei caratteri (e questo fu proprio uno dei motivi per i quali, durante il Romanticismo, venne meno il favore per questo capolavoro) “La clemenza di Tito”, rispetto ad altri lavori mozartiani che si poggiano su intrecci più accattivanti - atti cioè a catturare l’attenzione dello spettatore - abbisogna di un sostegno musicale perfetto: cioè di interpreti tutti d’eccellenza, dal primo all’ultimo. Quanto abbiamo per nostra fortuna trovato in questa edizione triestina, nella quale si è riusciti a radunare un cast praticamente ideale.
Andiamo in ordine: Giuseppe Filianoti conferisce statuario risalto, ma anche giusta eleganza alla nobile ed aristocratica figura di Tito per il limpido timbro, la liquida scorrevolezza, la bella ricerca d’espressività come stavano a dimostrare passi come «Del più sublime soglio» e «Ah, se fosse intorno al trono», che trasmettono la superiorità morale del personaggio.
Laura Polverelli ha reso tutte le sfaccettature del complesso carattere di Sesto: amante, amico, traditore pentito con una linea di canto variegata ed eloquente, bellamente brunita nel colore, poggiata su una tecnica formidabile, con una luminosa varietà d’accenti che raggiunge il culmine nel celebre, trasognato rondò «Deh per questo istante solo» e fa mostra d’iridescenti colorature nelle voluttuose sestine di «Parto, ma tu ben mio», concitato palpitare di un cuore disperato e nobile.
L’ambiziosa e vendicativa Vitellia – parte vocale ardita e bivalente - era delegata al velluto vocale di Eva Mei, sempre incisiva nell’accento ed attenta alle sfumature dinamiche, con una ampiezza e limpidezza di canto che mai vien meno, anche nel difficile cimento della frastagliata aria «Vengo…aspettate»; risplendente poi per la sensibilità infusa, con il meraviglioso corno di bassetto a fare da contrappunto, nelle volute teneramente rococò di una dolente « Non più di fiori vaghe catene».
Ineccepibili infine il trepidante Annio di Annunziata Vestri, il Publio severo di Marco Vinco, la tenera Servilia di Irina Dubrovskaja, molto più che semplici parti di contorno
Niente rigore, ma molta sensibilità nella direzione che abbiamo ascoltato: se l’impianto de “La clemenza di Tito” è quello dell’opera seria tradizionale, Gianluigi Gelmetti vi sa saputo scorgere e porre in rilievo tutto il soffio del nuovo che vi aleggia. Ha quindi guidato l’Orchestra del Verdi nella navigazione di una partitura ricchissima con leggerezza, raffinatezza, bella pulsione dinamica, e tanta profusione di fantasia. Calibratissimi poi i vari pezzi d’insieme, retti con abile senso drammatico. Un plauso poi vada ai bravi solisti triestini, in particolare al pirotecnico clarinetto di «Parto, ma tu ben mio». Ineccepibile il coro preparato da Paolo Vero.
Della indovinata scelta scenografica s’è detto: semplice, pertinente, accuratissima nella realizzazione di una copia a grandezza naturale del frontone palladiano. Françoise Raybaud-Pace ha fatto indossare a tutti severi abiti di taglio tardo settecentesco, che trasportavano la storia ai tempi del Salisburghese. La regia di Jean Luis Grinda agiva con temperanza, in un disegno di generale sobrietà che ben si adattava al clima celebrativo dell’opera. Le luci erano curate da Claudio Schmid.
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